Il linguaggio nel linguaggio
Linguaggio fotografico: le nostre intenzioni sono espresse in maniera esaustiva?
Il titolo potrebbe sembrare ambiguo, ma in realtà, se ci pensiamo bene la fotografia è connessa a molti altri linguaggi come la scrittura, il linguaggio del corpo, quello musicale, il linguaggio cinematografico. Così parlare di un linguaggio dentro un altro linguaggio non è poi troppo strano.
Le arti, si sa, stringono rapporti che non si esauriscono mai, cambiano, si evolvono, si adattano, ma non terminano di esistere. La fotografia come le altre arti, instaura rapporti che potrebbero non essere comprensivi a tutti.
La comunicazione visiva non prescinde dal significato che intenzionalmente vogliamo dare al messaggio e, quindi, dobbiamo essere quanto più chiari possibili nel trasmettere al nostro mittente perché questo lo comprenda a pieno. Qualsiasi tipo di comunicazione termina quando il messaggio viene recepito e per farlo bisogna parlare (più o meno) la stessa lingua o lo stesso linguaggio. La fotografia (come tutti i linguaggi) per essere capita deve avere un codice univoco per entrambi i soggetti della comunicazione: sappiamo che, per quanto intelligente, un soggetto se troppo diverso culturalmente da noi non può comprendere tutte le nostre intenzioni e ancora non abbiamo la possibilità di leggere la mente altrui.
Il nostro compito va oltre le nostre intenzioni: dobbiamo esprimerci con un linguaggio chiaro e semplice e, se possibile, conoscere il nostro interlocutore prima di inviare il messaggio. Per questo motivo si dice che nella fotografia bisogna togliere anziché aggiungere e avere delle immagini quanto più pulite possibile.
Non è sempre semplice, non è mai scontato.
Se inseriamo, per esempio, il linguaggio del corpo nel già eloquente linguaggio fotografico la questione potrebbe essere intricata: ogni cultura ha i propri valori, la propria etica e le proprie convenzioni in materia di comportamento. Ciò che per un popolo potrebbe sembrare normale potrebbe essere negativo per un altro: per esempio, ancora per molti popoli la fotografia ruba l’anima, quindi, fotografare il popolo Kuna di Panama di nascosto non è rispettoso nei loro confronti. O ancora, pubblicizzare un panino con carne di maiale in un Arabia Saudita non è proprio un buon marketing.
Ecco che il ricevente diventa anch’egli protagonista di un messaggio che, però, non deve condizionare il nostro modo di “scrivere”, piuttosto, dovremmo rinforzarlo con l’inserimento di altri linguaggi, visivi o uditivi se necessario.
L’arte contemporanea, la fotografia contemporanea fa proprio questo. Comunica con molti linguaggi per raggiungere lo stesso fine: far “passare il messaggio”.
Prima di tutto, infatti, troviamo il linguaggio scritto (anche tradotto se vogliamo) per specificare e sottolineare, con parole il significato delle nostre immagini. Possiamo, inoltre, arricchire il senso del nostro lavoro con altre immagini, altre fotografie (anche non nostre), ritagli di giornale, di libri. Come spesso accade si può aggiungere alla presentazione un audiovisivo: parole, immagini, musica si possono fondere in un unico dialogo.
Aggiungere anche oggetti che rimandino al significato del nostro progetto aumenterebbe ancora di più il coinvolgimento neurale, farebbe scattare dei rimandi al senso della storia che magari nelle fotografie non appaiono così chiari e immediati. Come dei ponti che collegano i dettagli significativi del racconto allo spaesamento neurologico. Una riflessione forzata verso il ragionamento. Come direbbero in molti: un “aiutino” per farci capire la strada intrapresa dall’autore.
Ovviamente non è solo una questione di comprensione, molte volte è una questione estetica: aggiungere altri linguaggi, fare degli innesti artistici rende il nostro racconto più bello, più piacevole. Ricordiamo che l’arte è bellezza e che questa può mostrarsi in tante forme.
L’arricchimento dei linguaggi non dovrebbe essere fuorviante né esagerato altrimenti si rischia di essere troppo barocchi e poco esaustivi. Bisogna ragionare e capire anche se la location dove vogliamo mostrare il nostro racconto sia capace di contenere tutti i linguaggi che vogliamo portare in essere e se tutto quello che vogliamo mostrare non sembri una caricatura del nostro messaggio.
Sperimentare sarebbe la parola adatta alla fine di tutto questo discorso.
Attraverso la sperimentazione possiamo capire fin dove possiamo spingere il nostro linguaggio e come fare a proiettare le nostre intenzioni in modo da incanalare il pensiero del nostro interlocutore verso il significato che ci è più consono.
Non basta, quindi, parlare la stessa lingua per comprendere a pieno il senso del messaggio. Bisogna andare oltre. Bisogna sperimentare.